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Moda sostenibile: dalla Venere degli stracci ai rammendi di Re Carlo III

Articolo
Articolo di mercoledì 13 settembre 2023
Protagonisti
Moda sostenibile
Autrice
Laura Bajardelli
vedi altri articoli di Laura Bajardelli

Nel mese di luglio, una copia della Venere degli stracci di Pistoletto ha preso fuoco ed è stata distrutta. Aldilà dei profili giudiziari del gesto vandalico avrebbe potuto essere una performance dell’artista per sottolineare come la moda sia effimera. Che poi così effimera non è, basti pensare che la maggior parte dei capi di abbigliamento è composta da fibre miste e quelle sintetiche impiegano anche 30-40 anni per decomporsi.

Effettivamente la moda e l’industria tessile hanno un impatto rilevante sul clima, l'uso di acqua, l’energia e l'ambiente- e quindi anche sulla nostra salute – a causa della sovraproduzione e del sovra consumo, basti pensare che ogni europeo acquista in media 26 chili di abbigliamento all'anno e ne scarta 11, dopo averli indossati solo 7-8 volte, mentre solo il 13% viene riutilizzato o riciclato. La produzione mondiale di prodotti tessili è quasi raddoppiata tra il 2000 e il 2015, e il consumo di abbigliamento dovrebbe aumentare del 63% entro il 2030.

La moda “fast-fashion” è ritenuta tra i maggiori responsabili della crescita di produzione e consumi. L’espressione è mutuata da fast-food, perché è moda usa e getta, bassi costi e bassa qualità, ma grandi volumi di produzione e vendita, basati sul principio che “nuovo è bello”. Le tendenze ammirate nelle sfilate in poche settimane si trovano un po' ovunque, certo non si deve guardare la qualità del filato o delle cuciture, ma ogni volta si può indossare qualcosa di nuovo e all’ultimo grido. E quindi davanti a una t-shirt in cotone in vendita a pochi euro non si sta a pensare che ci vogliono 2.700 litri (partendo dall’irrigazione della pianta di cotone fino allo smaltimento a fine vita), perché il più delle volte scatta il meccanismo “è nuovo, tanto costa poco, lo uso una volta e poi lo butto”. Un modello di consumo esasperato.

Gli studi di economia comportamentale svelano che questi approcci al consumo di cibo, vestiti o gioco d’azzardo si attivano allo stesso modo:meglio soddisfare subito un bisogno (reale o apparente) piuttosto che attendere, anche se per qualcosa di qualità superiore. Una volta si sarebbe detto “meglio un uovo oggi che una gallina domani”, che equivale a dire in termini tecnici che c’è un’inversione della curva intertemporale delle preferenze.

Tutto questo rende evidente che con il benessere economico diffuso ,la moda ha superato il concetto del vestire come bisogno primario di coprirsi,affermandosi come una manifestazione di identità personale e anche di imitazione sociale, a prescindere dal gruppo di appartenenza al quale si ispira. Nulla di male se non fosse che il modello di produzione e consumo esasperato non è più sostenibile perché ha dei costi ambientali e sociali troppo elevati.

Già, ci sono anche gli aspetti sociali, perché tra le domande che in genere non ci poniamo è quanto guadagna la persona addetta alla produzione, se l’importo è sufficiente per vivere in modo dignitoso o se è costretto a orari eccessivi, se le condizioni di sicurezza sono accettabili o se magari si maneggiano sostanze pericolose e nocive senza dispositivi adeguati.

Qualcuno però le domande se le pone e decide di agire e di aggregarsi ad altri con le stesse sensibilità, avviene sia tra i consumatori sia tra i produttori e questa tendenza si è ormai affermata e continua a crescere. Ci sono delle persone celebri che hanno fatto del rispetto dell’ambiente uno stile di vita, pensiamo a Re Carlo III che è conosciuto anche per garantire vita lunga ai suoi abiti, grazie al rammendo. A livello di movimenti di opinione, è molto noto “Fashion Revolution”, oggi presente in più di cento paesi, nato dopo il disastro del Rana Plaza in Bangladesh che causò la morte di 1.134 operaie tessili, chiuse all’interno dell’edificio così da non interrompere il lavoro e mantenere la produttività. Però senza possibilità di fuga. Questo movimento ha l’obiettivo di riformare il sistema della moda attraverso campagne informative ed educative per sensibilizzare consumatori ed aziende.

Sul fronte delle aziende, interessanti i protocolli promossi da 4Sustainability per le aziende toscane e dal progetto “SlowFiber” – una costola di Slow Food –ossia regole precise e misurabili da seguire nei processi produttivi dal design alla distribuzione, così da realizzare prodotti belli, durevoli e rispettosi della dignità dell’uomo e dell’ambiente, insomma dei beni sostenibili.Alcune delle grandi aziende del fast fashion stanno intraprendendo un percorso verso la sostenibilità, per esempio utilizzando fibre riciclate o fibre che necessitano di meno acqua. Da notare anche la Rete RIUSE, ossia una rete di cooperative delle province lombarde che si occupa della gestione dei cassonetti gialli che espongono il marchio omonimo e Caritas, della raccolta degli abiti usati e della vendita dei capi in buono stato ad aziende terze che seguono principi etici, e infine la distribuzione di vestiti ai più bisognosi.

Anche le istituzioni stanno facendo la loro parte: in Italia dal 2022 è stato introdotto l’obbligo di raccolta differenziata per i rifiuti tessili post-consumo, che d’abitudine venivano conferiti nell’indifferenziata, anticipando la tempistica prevista dall’Unione Europea in tema di riciclo e riutilizzo; la strategia comunitaria mira a spingere le aziende a farsi carico dell’impatto del loro business, tra gli obiettivi c’è quindi la realizzazione di prodotti di maggiore qualità, più durevoli, progettati per essere facilmente riciclabili e riutilizzabili e impiegando fibre riciclate; e ancora l’UE chiede alle aziende di agire sul fronte dei rifiuti tessili, raccogliendone una determinata percentuale oppure pagando una tassa affinché altri soggetti lo facciano. Altro aspetto importante, la previsione di sanzioni verso le aziende che fingono di essere sostenibili per trarre vantaggi di immagine.

Sostenibilità ed economia circolare sono i nuovi paradigmi da seguire in termini di produzione e di consumo, visto che i modelli attuali ci stanno facendo consumare ogni anno di più di quello che il pianeta Terra è in grado di rigenerare.

Si sentono spesso obiezioni contro lo sviluppo sostenibile e l’economia circolare, e verrebbe da rispondere citando le parole di Cicerone: nei confronti di Catilina: “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” Ossia: fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza? In ogni caso, l’obiezione più frequente è che l’Europa da sola non conta nulla visto che le emissioni di anidride carbonica dovute alla propria produzione sono solo il 14% di quelle mondiali, però se aggiungono le emissioni indirette in altri paesi che producono per l’Europa, allora questa percentuale sale ben al 21%.

L’altra obiezione ricorrente è che anche noi una volta inquinavamo, sversavamo acque reflue dagli impianti di produzione direttamente nei fiumi e i lavoratori erano a mani nude, senza mascherine o altre protezioni. E quindi è accettabile inquinare, sfruttare e distruggere in attesa che in quei paesi si sviluppino i diritti umani, dei lavoratori e dell’ambiente? A me sembra una logica miope, anzi mi sembra fare lo struzzo, con la differenza che almeno lo struzzo non è ipocrita.

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